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Merkel apre ad Assad (seguendo la linea russa e americana)

In una conferenza stampa a margine del vertice UE sui migranti, la Cancelliera tedesca Angela Merkel in risposta a una domanda sulla crisi siriana ha dichiarato: «Dobbiamo parlare con molti attori, questo include Assad, ma anche altri». Gli altri comprendono un po’ tutti, Stati Uniti, Russia, Iran, paesi sunniti del Golfo, ma non sono notizia: la notizia è l’apertura della Germania al coinvolgimento del rais siriano Bashar el Assad nella transizione di potere che dovrebbe portare ad una soluzione politica della guerra civile. Sulla stessa linea è ormai entrata anche la Casa Bianca. Pochi giorni fa John Kerry ha parlato della necessità di deporre Assad tra le opzioni a lungo termine, sottintendendo dunque che per il breve termine l’ha spuntata la Russia: Assad non si tocca per adesso ─ tra le opzioni, la possibilità di affidare al presidente potere formale durante una fase transitoria (l’idea non dispiace nemmeno ai sauditi, che sono molto impegnati in Yemen e faticano a tenere il punto sul doppio fronte).

Russia e Iran, gli unici partner di peso internazionale del regime, lo stanno proteggendo non solo a livello diplomatico. Dal sito The Aviotionist, Davide Cenciotti ha spiegato come hanno fatto i russi a trasportare gli aerei militari schierati in Siria senza che questi venissero tracciati dai radar: si tratta di una tecnica rodata, i Sukhoi avrebbero volato sotto la “pancia” dei grossi cargo IL-76, facendo perdere la propria traccia radar. E così Mosca ha messo in piedi una forza di pronto intervento in una base aerea “improvvisata” appena fuori Latakia, la città degli Assad. La forza di reazione è composta da caccia ed elicotteri da combattimento oltre a circa duemila soldati, blindati e pezzi d’artiglieria, che sarebbero in grado di far fronte da soli a qualsiasi offensiva lanciata dai ribelli. Nell’area non c’è lo Stato islamico, ma è particolarmente attiva una grossa coalizione di ribelli islamisti che prende il nome di Jaysh al Fatah, l’esercito della conquista ─ il segretario di Stato americano John Kerry ha detto che l’ammassamento di militari a Latakia serve per difendere la base stessa che li ospita, ma tutti sanno che non è vero.

Alcune fonti del Financial Times hanno segnalato che le truppe russe sarebbero disposte come seconde linee dell’esercito siriano, ma potrebbero pure colpire in offensiva. I russi fondamentalmente non si fidano (a ragion veduta) della preparazione dell’alleato di Damasco, per questo sembra (si attendono conferme) che stiano guidando il coordinamento tra le loro unità e quelle delle forze speciali iraniane e di Hezbollah proprio da Latakia. Uno delle ragioni indiscutibili sull’intervento di Mosca è la difesa di Assad e di ciò che resta del territorio da lui controllato ─ Assad deve proteggersi, perché ha già usato oltre il novanta per cento dei missili del suo arsenale militare, ha le truppe decimate da perdite e defezioni, e non riuscirà mai a riconquistare il territorio perduto. Però la Russia, per mettere le mani sulla transizione, vorrebbe che Assad negoziasse da una posizione di maggiore potere, magari dopo piccole riconquiste e senza dare l’idea di un pugile alle corde com’è in questo momento.

Contemporaneamente Mosca deve guardare all’opinione pubblica e politica internazionale. Il 28 settembre il presidente russo Vladimir Putin terrà a New York un discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed è possibile che a latere del summit incontri Barack Obama. È probabile che in questo lasso di tempo o nei giorni appena successivi, la Russia entri in azione ─ con o senza coordinazione con gli Stati Uniti. La prima fase di operazioni dovranno però garantire un successo sicuro. I russi cercano visibilità per ottenere un accredito di serietà internazionale. Putin ha ufficialmente detto che intende condividere (e pianificare, ovviamente) con l’Occidente lo sforzo contro lo Stato islamico. È il secondo fronte dell’intervento: perché il primo, difendere l’alleato, non ha come nemico lo Stato islamico (detto molto chiaramente) perché nelle zone in cui i russi si sono posizionati, come accennato, l’IS per il momento non c’è, ma anzi ci sono gruppi che sono nemici del Califfato (nota provocatoria: se Assad è un alleato potabilizzato contro “il-nemico-comune-Califfo”, allora anche gli islamisti di Jaysh al Fatah dovrebbero esserlo).

C’è pure Israele che rivendica diritti

Il «doppio pubblico» (definizione di Daniele Raineri sul Foglio) che Putin deve soddisfare ─ quello Occidentale, per cui deve combattere l’IS, e quello del regime siriano, per cui deve combattere i ribelli nell’area di Latakia ─ ha uno spettatore speciale: Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è volato di fretta a Mosca due giorni fa, portandosi dietro una formazione che era un messaggio di per sé: con lui infatti c’erano il capo delle Forze armate e il generale Gadi Eisenkot, e quello dell’Aman (l’intelligence militare) il generale Herzl Halevi.

Netanyahu ha incontrato di persona Putin per chiarire un concetto: non spariamoci contro. Israele sta compiendo da diversi anni operazioni sul Golan ─ che sono in linea con una strategia storica: chiunque si avvicina lo colpiamo a meno che non ci faccia comodo (vedere alla voce ribelli siriani che combattono Hez). L’obiettivo israeliano è soprattutto l’approvvigionamento militare di Hezbollah. Secondo il Mossad, l’Iran (Paese che vorrebbe Israele cancellato dalla cartina geografica), sfrutta il caos del conflitto siriano per rifornire di armamenti tecnologicamente avanzati Hezbollah. Siccome è abbastanza assodato che prima o poi il partito/milizia libanese riutilizzerà quelle armi in un secondo round di un conflitto contro Israele (il primo s’è chiuso nel 2006), allora Gerusalemme colpisce preventivamente i depositi o i carichi di armamenti in transito. A fine agosto è stato scatenato un grosso bombardamento addirittura contro alcune postazioni siriane, perché erano stati lanciati dei razzi in territorio israeliano. Non erano stati i siriani, ma la fazione palestinese dell’unità dell’esercito iraniano al Quds: solo che per Israele tutto quello che avviene di là dal confine è formalmente responsabilità siriana, e dunque a finire sotto l’artiglieria dell’IDF è stato l’esercito di Damasco.

Quello che ha chiesto Netanyahu a Putin è la garanzia di mantenere attiva la possibilità di controllare e colpire Hezbollah (o qualunque altra minaccia) nel caso di necessità, senza il rischio di finire invischiato in questioni diplomatiche. Pensare, per esempio, che succederebbe se in una di quegli accampamenti dell’esercito siriano dove si nascondo gli uomini di Hezbollah colpiti dagli israeliani, ci fossero dei soldati russi. Putin ha risposto ufficialmente con un «saremo responsabili».

Il timore profondo di Gerusalemme è che si crei un asse di collaborazione tra i suoi principali nemici sul territorio siriano, Iran e Hezbollah, e la Russia anche in chiave anti-israeliana.

@danemblog

 

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