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Senato, unioni civili, Marino. Ecco sfide e inghippi di Renzi

Michele Ainis e Paolo Mieli

Con tutto quello che accade nel mondo, fra rumori e fuochi di guerre, che giustamente hanno invaso le prime pagine, è francamente difficile considerare una casualità l’editoriale che il Corriere della Sera ha voluto dedicare, con la pungente firma del costituzionalista Michele Ainis, alla riforma del bicameralismo. Esso è uscito lunedì, il giorno prima del voto conclusivo del secondo e probabilmente penultimo passaggio della riforma del Senato nell’aula di Palazzo Madama, nel termine del 13 ottobre propostosi dal governo. Un passaggio molto enfatizzato dal presidente del Consiglio, per cui si è avuta la maliziosa sensazione che al Corriere abbiano voluto rovinare un po’ la festa a Matteo Renzi e alla sua ministra botticelliana Maria Elena Boschi.

Per un’altra sfortunata coincidenza in questi giorni è ulteriormente salita la tensione nel Corriere a causa di un pesante piano di risanamento impantanato nei ministeri competenti, e ancor più contestato dai sindacati dopo la liquidità attribuita all’azienda per l’operazione MondaRizzoli.

Il direttore Luciano Fontana è a dir poco infastidito e affaticato dalle difficoltà. E ha cominciato a delegare con una certa frequenza gli editoriali politici a Paolo Mieli, già salito due volte sulla cabina di comando, nei momenti difficili, del giornale milanese di via Solferino. Un direttore paziente, Mieli, e simpaticamente sornione, che riesce a non irritare mai più di tanto concorrenti, critici o avversari di turno, storicizzando sempre tutto, aiutato in questo dalla sua professione parallela a quella del giornalismo.

(DE BORTOLI, MIELI E SCOTT JOVANE. LA SERA ANDAVAMO IN VIA RIZZOLI… ARCHIVIO PIZZI)

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Michele Ainis, con la conoscenza che ha della Costituzione e con la capacità felice di attingere al sarcasmo, ha sin troppo facile gioco nel descrivere la Repubblica italiana come “adulta ma né vergine né madre, sempre leggermente incinta”, come disse il talentoso Ennio Flaiano e imparò a ripetere, prima di Ainis, il buon Enzo Biagi. Una Repubblica le cui leggi sono sempre o generalmente “opache, ingannevoli, insincere”. Dove si istituisce il divorzio ma non lo si chiama così, e probabilmente si istituiranno le unioni civili fra omosessuali chiamandole “specifiche formazioni sociali”. Dove la guerra diventa “ingerenza umanitaria” e la forma di governo parlamentare “esangue come una fanciulla addentata dal vampiro”, vista l’elezione praticamente diretta del presidente del Consiglio  garantita con il premio di maggioranza della nuova legge elettorale alla lista più votata.

Quanto poi alla riforma del Senato in corso d’opera, Ainis riesce a far ridere di gusto i suoi lettori quando parla del passaggio non da due a una Camera, ma a “una Camera e mezza”, che viene eletta non dai Consigli Regionali ma “dai cittadini attraverso i Consigli Regionali”. Come per analogia qualcuno potrebbe pensare del presidente della Repubblica, eletto dai cittadini attraverso le Camere, due o una mezza che siano. Ma Ainis si è risparmiato questo paradosso volendo far prevalere stavolta la dottrina sul sarcasmo.

Tutto vero, per carità. Tutto “inclinato” e “mascherato”. Ma una Camera e mezza, di cui la mezza, con la sua maggioranza non sempre coincidente con quella dell’altra, non interferisce più nella fiducia al governo, che risulterà pertanto più stabile, di sinistra o di destra che sia, sono sempre preferibili a due Camere ripetitive, più lente  e più costose.

Un divorzio chiamato dalla legge istitutiva, nel 1970, in altro modo, come “scioglimento del matrimonio”, è preferibile alle gabbie che finivano per diventare, prima di allora, tante unioni fallite e formalmente indissolubili. Un intervento militare travestito da “ingerenza umanitaria” è migliore della indifferenza, cioè del voltare la faccia, oltre che la testa e il cuore, dall’altra parte per non vedere lo scempio che si fa della vita addirittura in nome del proprio Dio, e non troncarlo o almeno interromperlo.

(MICHELE AINIS VISTO DA UMBERTO PIZZI. TUTTE LE FOTO PIU’ RECENTI)

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Le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma non hanno avuto bisogno, per fortuna, di essere chiamate in altro modo per essere finalmente formalizzate con firma e deposito, preceduti dagli ultimi atti di non ordinaria amministrazione. Fra i quali una delibera che permetterà al dimissionario di partecipare con la sua brava fascia tricolore al collo, come parte civile, se non alla prima udienza del processone di Mafia Capitale, il 5 novembre, quando saranno trascorsi tutti i 20 giorni di moratoria concessigli dalla legge – da contare senza sconti festivi o semifestivi – almeno al processo del 20 ottobre. Dove gli imputati non saranno i quasi 60 dell’altro, ma solo cinque, fra i quali l’ex direttore generale dell’azienda dei rifiuti Giovanni Fiscon.

Due soddisfazioni, comunque, i tifosi di Marino le hanno avute nella giornata del deposito delle sue dimissioni. Corrispondono alle notizie riguardanti due persone che non hanno certamente dato una mano al loro beniamino. E’ finito sotto inchiesta della Corte dei Conti per spese di rappresentanza, pure lui, Matteo Renzi nei panni passati di sindaco di Firenze. E oltre Tevere è scoppiato “un nuovo Vatileaks”, come lo ha definito, sconsolato, il capo dell’ex Sant’Uffizio Gerhard Ludwig Muller parlando di una lettera di 13 cardinali, diciamo così, conservatori, polemica verso Papa Francesco. Che con la diffusione di questa missiva non c’entra naturalmente nulla, come il Papa ebbe impietosamente a dire dell’invito a Marino a volare da lui a Filadelfia.

(MULLER, RUINI E FERRARA PRESENTANO IL LIBRO DI PERA. LE FOTO DI PIZZI)

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