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Come (e quanto) l’Italia ha sprecato il dividendo dell’euro

In un articolo di qualche giorno fa, e ripreso dal sito di Fermare il Declino, ho cercato di modellizzare l’impatto, in termini di minori interessi pagati, dovuto all’adesione dell’Italia alla moneta unica. L’idea era quella di verificare se la cifra di 700 miliardi di euro indicata da Oscar Giannino e ridicolizzata da Claudio Borghi, fosse attendibile come “ordine di grandezza” nel quantificare il cosiddetto “dividendo dell’euro.”
 
Nell’articolo facevo presente che qualsiasi tentativo in tal senso sarebbe stato arbitrario, in quanto non siamo in grado di predire che cosa sarebbe successo se l’Italia fosse stata esclusa dall’euro. Rimane il fatto che quel semplice calcolo mostrava che i 700 miliardi indicati da Giannino non erano poi una “balla colossale” ma un risultato molto vicino a quello che, molto grezzamente, avevo calcolato io.
 
Visto che le polemiche non mi interessano, ma le critiche sì, provo a rispondere ad alcune delle obiezioni che il professor Gustavo Piga ha fatto al mio articolo nei giorni scorsi.
 
1. Conta il tasso reale, non quello nominale
 
La tesi è la seguente. Se pago un tasso di interesse nominale del 20% e oggi mi indebito per 100, tra un anno dovrò restituire 120. Ma se nel frattempo anche i prezzi sono aumentati del 20%, i 120 di domani, in termini reali, varranno quanto quelli di oggi, per cui in realtà ho pagato un tasso reale pari a zero. Si conclude quindi che pagare il 20% di interessi con un 20% di inflazione è equivalente a pagare zero interessi in un regime di prezzi stabili.
 
Nella realtà, però, la cosa si complica, principalmente per due motivi. Il primo è che non posso conoscere in anticipo il tasso di inflazione che ci sarà tra 3, 5 o dieci anni, e se mi indebito a lungo termine con inflazione e tasso nominale molto alti, rischio di trovarmi dopo qualche tempo, con un’inflazione molto più bassa e tassi di interesse “reali” da usura. Lo stesso, ovviamente, vale per il debito pubblico ed è il motivo per cui quando si è in una situazione del tipo 20/20 (20% interessi, 20% inflazione), di solito la vita media del debito è molto bassa.
 
Il secondo motivo è che un tasso di inflazione alto non è esattamente salutare per l’economia e soprattutto non è controllabile. Si parte con l’idea di cavalcare la tigre inflazionistica e si finisce a correrle dietro attaccati per la coda, incapaci di arrestarla.
 
2. Non sappiamo come sarebbe andata a finire
 
Il professor Piga ipotizza che, trafitti dall’orgoglio ferito per non essere stati ammessi nell’euro, saremmo stati spinti a “far meglio” dei nostri vicini ammessi nella moneta unica. Tutto è possibile. Non comprendo da dove derivi tutta questa fiducia nella classe politica che ci ha governato negli ultimi 18 anni. Se poi teniamo conto che il il primo argomento usato per auspicare un ritorno alla lira è proprio la possibilità di poter “svalutare competitivamente” la moneta nazionale, direi che ci possiamo togliere ogni dubbio.
 
3. La differenza tra i tassi è dovuta alla convergenza dei tassi d’inflazione
 
La differenza tra i tassi di interesse nominali pagati da Italia e Germania nel 1996, ovvero all’inizio del periodo di campionamento che ho utilizzato, era simile a quella tra i tassi di inflazione dei due paesi nello stesso periodo. La cosa non è affatto sorprendente in quanto le aspettative inflazionistiche sono proprio una delle componenti che concorrono a determinare i tassi di interesse nominali.
 
Gli anni a ridosso dell’ingresso nell’euro hanno visto queste aspettative convergere verso i valori tedeschi, mentre contemporaneamente è venuto un altro fattore che poteva far lievitare il nostro tasso di interesse rispetto a quello tedesco: il rischio di cambio, ovvero la possibilità che la lira venisse svalutata rispetto al marco.
 
È davvero così inverosimile pensare che siano state queste aspettative ad azzerare quelle componenti e far convergere il tasso di interesse italiano (e quello degli altri paesi entrati nell’euro) verso quello tedesco già a partire dal 95/96?
 
Non conta quanto paghiamo di interessi perché “lo dobbiamo a noi stessi”
 
Il professor Piga qui richiama la tesi di Abba Lerner per cui le dimensioni del debito pubblico, almeno fino a quando i maggiori detentori dei titoli sono interni al paese, non contino in quanto “We owe it to ourselves” (lo dobbiamo a noi stessi) e quindi il tutto si ridurrebbe a un “mero trasferimento di denaro che avrebbe pochi effetti sulla crescita economica.”
 
Non sono d’accordo. Sul piano dell’equità, appena si abbandonano gli appannati occhiali della macroeconomia e si guarda da vicino la realtà, ci si accorge che c’è una bella differenza tra i “we” che pagano gli interessi sul debito (i contribuenti) e gli ourselves che invece li ricevono.
 
Tra questi ultimi ci sono, infatti, banche, fondi e lavoratori prossimi alla pensione che, molto probabilmente, hanno potuto godere lautamente della spesa pubblica in deficit dei decenni precedenti. Nei “we” troviamo invece categorie, come i giovani, che poco hanno contribuito all’esplosione del debito pubblico mentre ora sono chiamati in prima persona a pagarne il conto.
 
Dal punto di vista della crescita, invece, le imprese produttive sono danneggiate due volte: quando lo stato fa loro concorrenza sul mercato del credito e poi quando sono costrette a pagare tasse più alte per finanziare gli interessi sui debiti contratti dal governo.
 
È davvero così insensato affermare che un alleggerimento di questo peso sulle imprese abbia effetti positivi sulla crescita?
 
In conclusione
 
Negli anni che hanno preceduto l’entrata in vigore della moneta unica, i Paesi che vi hanno aderito hanno visto calare interesse nominali pagati sul proprio debito pubblico. Questo movimento si è composto di due fattori: un calo generale dei tassi di interesse che ha interessato tutti i Paesi occidentali a cui si è sommata una riduzione degli spread nei confronti dei titoli tedeschi. Questo secondo fattore è caratteristico solo dei paesi che hanno aderito alla moneta unica.
 
È impossibile quantificare precisamente quale sia stato il cosiddetto dividendo dell’euro ma una cosa è certa. I governi che si sono trovati alla guida dell’Italia dal 1996 al 2011 hanno avuto una grande opportunità, ovvero sfruttare la riduzione dei tassi di interesse pagati sul debito per mettere in sicurezza i conti pubblici. Non solo non lo hanno fatto, ma hanno approfittato di questi risparmi per allargare i cordoni della spesa pubblica improduttiva e a fini clientelari.
 
Nel farlo, hanno posto le basi per il declino dell’Italia. Loro, non l’euro.
 
Marco Bollettino
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