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Gianfranco Fini, Fli e il fallimento di una destra mai nata

Il congedo è avvenuto nella più completa indifferenza. I giornali che a lungo raccontavano lo “strappo” di Gianfranco Fini come una ribellione salutare alla monarchia assoluta berlusconiana ed erano pronti a giurare sul suo successo, non hanno ritenuto di dover dedicare neppure poche righe di commiato a Fli. Qualche “breve” nascosta. E più nulla. Il partito sciolto dagli elettori, si è sciolto senza neppure un saluto alla memoria di un’improvvida avventura che aveva tutto il sapore di un’illusione.

L’assemblea nazionale, infatti, ha sancito l’8 maggio la fine del breve accidentato percorso del partito. Fini, già leader di Alleanza nazionale che ottenne lusinghieri successi tra il 1994 (quando il “mutamento” non era ancora stato completato) ed il 2006, fino a toccare la vertigine del 15,7% dei suffragi, si è ritirato dichiarando di aver fallito ed ha accettato la sconfitta senza accampare giustificazioni, né alibi e neppure cercando ricomposizioni impossibili, come ha lui stesso ammesso, convinto di non essere uomo per tutte le stagioni. Il “riciclaggio”, insomma, non gli si addice.

Gli errori di strabismo politico commessi da Fli sono stati tanti. Il magrissimo risultato elettorale li riassume tutti. Va solo ricordato che prima l’abbandono del centrodestra da parte degli scissionisti e poi la confusa e precaria costruzione di un soggetto che per disperazione – non avendo altre possibilità di collocazione – è diventato “centrista” pur essendo lontanissimi da quell’area tutti i suoi esponenti, ne hanno pregiudicato l’agibilità politica fino alla scomparsa.

La destra che Fini ed i suoi immaginavano, insomma, non è mai nata. Poteva esistere, pur lontana dall’alveo berlusconiano, a patto che principi, valori, riferimenti, strategie fossero coerenti con una tradizione politico-culturale riconoscibile e comunque attraente. Invece non è stato infrequente imbattersi in prese di posizioni antitetiche alla destra da parte di non pochi parlamentari di Fli e dello stesso Fini che lasciavano sconcertati coloro che li avevano seguiti, molti dei quali non esitarono perciò a fare retromarcia.

Comunque la si voglia giudicare, l’esperienza finiana ha determinato una rottura traumatica all’interno di una componente umana prima che politica le cui conseguenze si sono fatte dolorosamente sentire. Per dirla tutta, un mondo, cementato da ideali e culture, a lungo ostracizzato per poi affermarsi con il consenso conquistato, è andato in frantumi. In quel mondo, per oltre mezzo secolo sopravvissuto a tutte le intemperie politiche, si sono consumati drammi personali di cui non è stata valutata la gravità nello stesso Pdl che in quest’ultima tornata elettorale ha marginalizzato quasi tutti coloro i quali erano rimasti nel suo ambito – perfino quelli che avevano criticato la “fusione a freddo” tra An e Forza Italia – come se fossero comunque sospetti di “intelligenza con il nemico”. La destra, come scrivemmo su formiche.net, è stata scientificamente asfaltata. Ma questa è acqua passata.

Non passa, invece, la “tentazione” di rimettere insieme i frammenti che, a quanto pare di capire, sono piuttosto vitali. Anche da parte di chi ha seguito Fini. E’ in corso un lavorio che coinvolge alcuni dei suoi collaboratori più stretti come Roberto Menia che sta tentando un dignitoso approccio con altre componenti della destra, a cominciare da Fratelli d’Italia, che stanno dando luogo ad una sorta di “rete” allo scopo di provare a costituire una “soggettività” diffusa unita da uno stesso obiettivo: riproporre la destra senza scimmiottare Alleanza nazionale. Non è detto una “Cosa” non venga fuori.

Naturalmente una sommatoria di soggetti sarebbe inadeguata allo scopo. La destra che non c’è eppure, paradossalmente c’è, potrebbe ritrovarsi realisticamente intorno ad un progetto finalizzato all’organizzazione nello spazio lasciato vuoto dalla scomparsa di An, di uno schieramento politico che riesca a muoversi in sintonia con l’esigenza di cambiamento istituzionale e di moralizzazione della vita pubblica diffusa nel Paese. Coniugando la tradizione culturale propria della destra con le spinte modernizzatrici che andrebbero adeguatamente interpretate e governate. Non si tratterebbe di rifare ciò che non c’è più, insomma, ma di reinventare un’identità procedendo a quella sintesi culturale che venne avviata a Fiuggi nel 1995 e poi è sbiadita strada facendo, fino a perdersi.

Un orizzonte ambizioso, senza dubbio. Ma inseguire piccoli obiettivi non è interessante per nessuno. Accontentarsi del piccolo cabotaggio o trasformarsi in qualcosa d’indistinto è inutile. Come la parabola di Futuro e libertà eloquentemente dimostra.

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