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Loro Piana? Lvmh assicura il futuro del Made in Italy

L’ennesimo marchio del superlusso italiano si aggiunge alla lista delle griffe passate in mano francese. L’ultima operazione riguarda infatti una delle perle del cachemire italiano, Loro Piana, di cui l’imprenditore francese Bernard Arnault ha acquistato una quota dell’80% per due miliardi di euro. L’asso pigliatutto? Il gruppo Louis Vuitton Moet Chandon (Lvmh). Ma non è trascorso troppo tempo dall’acquisto di Pomellato da parte del francese Kering e di quello di Valentino, maison finita nelle mani del fondo sovrano del Qatar.

Tristezza per la bandiera, non per l’impresa e l’Italia

Una tristezza per la bandiera, ma che non deve alimentare troppi timori per il futuro del manifatturiero italiano, sottolinea in una conversazione con Formiche.net David Pambianco, vicepresidente della società di analisi e consulenza nel settore della moda e del lusso Pambianco. “Che un pezzo importante del Made in Italy cambi bandiera è un grande dispiacere, ma bisogna riconoscere che i francesi hanno la capacità di valorizzare le aziende che hanno acquistato in Italia. Lvmh, come il gruppo Ppr, ha dimostrato di essere capace di ottenere il massimo dagli ormai numerosi marchi italiani acquisiti. E’ stata attribuita grande importanza al sistema territoriale e culturale in cui i marchi sono nati e in cui si sono sviluppati, facendo attenzione a non smontare il loro valore aggiunto”.

In questo senso, secondo Pambianco, “operazioni come quella Loro Piana garantiscono un futuro alle imprese italiane e all’Italia in generale, anche dal punto di vista occupazionale”. Rischi di delocalizzazione, insomma, non ce ne sarebbero. Il valore aggiunto del Made in Italy àncora le imprese sul nostro territorio, anche se la gestione passa in mani straniere.

I limiti della cultura imprenditoriale italiana

Ma perché sempre più perle del Made in Italy finiscono in mani non italiane? Dipende dal sistema bancario che non le supporta, dagli imprenditori che non riescono a creare rete, dal sistema Paese? “Gli italiani sono bravissimi a creare e sviluppare le loro aziende fino ad una certa dimensione, ma non a fare grandi gruppi. Colossi nel nostro Paese effettivamente non ce ne sono, e quelli più vicini al settore del Made in Italy sono in Francia. Credo che non si tratti di un problema finanziario, ma del sistema Paese e della cultura imprenditoriale italiana. E’ una questione di scelta. Loro Piana non può certo essere considerata un’azienda in crisi, anche se con l’integrazione con Lvmh si avranno a disposizione più risorse da investire”. Nel 2012 il gruppo dei fratelli Sergio e Pigi ha fatturato 630 milioni di euro, con un utile netto che se va bene è il 10 -15% dei ricavi. Ovvero pari a 60-90 milioni di euro.

Gli altri big del lusso italiani

Perché non si sono fatti avanti i grandi nomi della moda italiana come Armani, Prada e Dolce&Gabbana? “Armani non è un compratore, e Prada è già troppo impegnata nel suo business. Tante grosse aziende, ma che, in sostanza, restano monomarca”, commenta.

Arnault vs Della Valle e Benetton

Fendi, Emilio Pucci, Bulgari e Acqua di Parma. Tanti i nomi del lusso che sono finiti nel tempo nelle mire di Bernard Arnault, anche se i suoi investimenti spaziano nel settore dei vini, della cosmetica con Sephora e del Duty free. Una strategia diversa da quella dei big italiani? “Effettivamente nel nostro Paese gli imprenditori, arrivati ad una certa dimensione, tendono a diversificare i loro investimenti con logiche non sinergiche”. Un esempio? “I Benetton, che dai maglioncini colorati sono passati alla telefonia, alle autostrade e a Autogrill”. Ma sono anche le mosse del Patron di Tod’s, Diego Della Valle, tra Rcs e Intesa Sanpaolo, a rimbalzare sui giornali.

La necessità del sostegno all’export

E come giudicare le nuove generazioni italiane nel campo del lusso? “Non saprei – commenta – anche perché il contesto di mercato è molto più difficile oggi rispetto al passato, ma sono ottimista. Di certo dovrebbero essere sostenuti anche a livello politico”. L’intervento più urgente, secondo Pambianco, riguarda il supporto all’export, “il futuro delle vendite del lusso italiano”. Senza dimenticare il lato fiscale. “La ricerca creativa nella moda a livello legislativo ad esempio non viene considerata un investimento, anche se le aziende spendono milioni di euro in questa attività”, conclude.

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