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Cosa insegna il caso Kazakhstan

Non sono pochi gli insegnamenti che derivano dal pasticcio kazako e vanno tutti studiati con attenzione. Il primo e fondamentale è come l’Italia si possa permettere ancora meno disinvolture delle altre grandi nazioni sul tema dei diritti umani: questo al fondo è provvidenziale perché essere aiutati ad aprire il cuore – come ha ricordato Papa Francesco sulla questione degli immigrati per mare – è prezioso.

Detto questo appare con nettezza come l’Italia abbia un problemino nella gestione della politica estera: in qualsiasi grande nazione funzioni come quella della Farnesina hanno bisogno di politici, anzi di grandi politici (così al volo si ricordano Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, Gianni De Michelis, in parte Antonio Martino e per ultimo Massimo D’Alema, non certo Gianfranco Fini) e non di tecnici o neanche di politici di qualità come Emma Bonino che non abbiano alcuna “forza propria”.

E’ evidente, in questo senso, come il governo Letta sarebbe assai più forte con D’Alema agli Esteri (e con un duo Renato Brunetta-Stefano Fassina al posto di Fabrizio Saccomanni).
E’ chiaro, poi, come l’attacco ad Angelino Alfano sia motivato essenzialmente da chi si vuole liberare del governo di unità nazionale. Insomma un’aggressione del tipo di quella di certe assai poco sagge erinni paracostituenti incapaci di separare un ruolo di ricostruzione nazionale dallo scontro politico immediato (Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti guardando questo spettacolo si rivolteranno nella tomba).

Certo è che a prescindere dalle responsabilità politiche del governo, il pasticcio kazako fa emergere con chiarezza il caos ampio esistente nella nostra Repubblica: vastamente testimoniato dalla liquidazione di alcuni tra i più esposti servitori dello Stato (da Mario Mori a Giampaolo Ganzer, a Nicolò Pollari, a Francesco Gratteri – e per fortuna si è salvato Gianni De Gennaro – a Guido Bertolaso) avvenuta grazie all’anarchia feudale che caratterizza il sistema della nostra magistratura inquirente (in tutte le nazioni civili coordinata al sistema della sovranità popolare) titolare non solo ormai della nostra politica di sicurezza ma anche di una buona fetta della nostra politica estera.

E questo duplice dominio di fatto su sicurezza e politica estera, è pienamente confermato dal “pasticcio kazako”. Che tra l’altro avviene mentre una delle nostre poche grandi industrie, l’Eni, è messa sotto attacco dall’Algeria alla Nigeria sino al Kazakistan (grazie anche all’articolato contributo di diverse procure italiane) perché si sforza di mantenere la nostra indipendenza energetica nazionale. Dopo che un’altra splendida azienda pubblica come Finmeccanica è stata ripetutamente “piegata”, perdendo anche importanti commesse in India per esempio, e per fortuna – e grazie alla saggezza di Giorgio Napolitano – ha ora alla sua testa un presidente con decisive relazioni Oltreatlantico.

Mentre si prende nota che il consigliere economico di Matteo Renzi (quest’ultimo divenuto ora grande cocco pure della Repubblica) suggerisce di vendere l’Eni, è opportuno riflettere sulle considerazioni di un’altra personalità di qualità sprecata dalla fangosa lotta politica nazionale, Vittorio Grilli, che avvisa come sia inutile pensare a una politica nazionale nell’attuale contesto globale e suggerisce un miglior coordinamento con l’Unione europea. In realtà il ruolo italiano più valido può essere solo quello di collegare (a meno di non pensare a una nuova entità mediterranea come voleva quel poliforme intellettuale che fu Alexandre Kojeve) Bruxelles e Washington. Bisogna vedere se questa ultima funzione possiamo esercitarla “in piedi” e a labbro asciutto, o in ginocchio e con la lingua ben umida.

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