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Renzi premier è la strada obbligata per le riforme. La versione di Campi

Un partito, il Pd, che “ripete errori e schemi” (D’Alema-Prodi nel 1998), un nuovo leader che era evidente a tutti che dopo la vittoria alle primarie non sarebbe rimasto con le mani in mano. E un Paese desideroso di scelte ambiziose e traguardi che diano la scossa. Il passo in avanti di Matteo Renzi verso Palazzo Chigi è così analizzato dal politologo Alessandro Campi, editorialista del Messaggero e docente di Storia del pensiero politico all’Università di Perugia.

Renzi rottama Letta: c’è il rischio del fantasma del ’98?
Può anche darsi. Nel Pd e a sinistra c’è questa tendenza a ripetere schemi ed errori, è un partito che continua ad essere popolato da fantasmi. Detto questo le condizioni sono molto diverse.

Qual è il primo banco di prova?
Vedere come Renzi spiegherà il passo compiuto, nella direzione piddì in fondo non ha detto nulla rispetto a come immagina il suo arrivo a Palazzo Chigi, con quali alleanze, su quali basi programmatiche. L’arrivo di D’Alema al posto di Prodi avvenne sedici anni fa sulla base di complicati passaggi parlamentari, penso al ruolo di Cossiga o ai partitini che nacquero. Qui ci sono condizioni più lineari, con una partita politica ben più chiara sin dall’inizio. Dopo la vittoria alle primarie del Pd non si poteva certo immaginare che non accadesse nulla.

Il leader innovativo e non dedito a manovre di palazzo prima annuncia le urne per poi cambiare strategia: richiamo da vecchia politica o strada obbligata?
Ci sono motivazioni di ordine generale, e poi non bisogna mai dare retta a ciò che dicono i politici.
Come capita spesso c’è stata una forte discrasia tra ciò che pensava e ciò che poi ha fatto, ma non sarebbe nemmeno questa la grande novità.

E quale?
In realtà, prendendo per buone le cose che lui diceva, quando rassicurava che Letta sarebbe durato per tutto il 2014, eliminando le giustificazioni psicologiche e la bramosia di potere, resta una sola spiegazione: Renzi si deve essere accorto che, sottovalutate le difficoltà al livello di lavori parlamentari, non c’era altra via per procedere alle riforme che aveva in testa.

Come sulla legge elettorale?
Sull’Italicum aveva immaginato un timing su cui si è subito smentito. Per cui si è fatta strada la consapevolezza che, senza metterci la faccia e senza prendere per mano il controllo diretto del gioco politico, il suo processo di riforme si sarebbe arenato. Inoltre non lo avrebbe portato da nessuna parte quello schema che aveva messo a punto, per cui ha deciso di provarci in prima persona. Credo abbia pensato che star fuori lo avrebbe danneggiato.

Chi vince e chi perde con un Renzi premier?
Con questa scelta lui rischia molto, ma si sarebbe sicuramente bruciato se fosse rimasto fuori. Inoltre penso abbia smesso di fidarsi – e ha fatto bene – di Enrico Letta e del Capo dello Stato. L’idea che avrebbe potuto appoggiare Letta in attesa che questo governo realizzasse le riforme, per poi andare al voto, non lo ha più convinto.

Perché il premier in pectore alla direzione del Pd ha chiesto “un’ambizione smisurata”?
In quello è stato abile, credo sia stato bravo retoricamente. E’ l’accusa che gli è stata mossa nelle ultime ore, di aver cambiato idea e strategia. Ha detto che in politica l’ambizione non è un difetto, ma può essere una virtù, specie quando non è finalizzata al potere personale. In questo momento dovremmo esserlo tutti dandoci dei grandi traguardi, dopo anni di governi che hanno vivacchiato, Monti incluso.

Come valuta le ragioni di Renzi?
Direi che il concetto di scossa è venuto fuori molte volte in passato, penso all’ex ministro Corrado Passera con la speranza dell’ideona e della ripartenza. Il problema è che i fatti non si sono visti. Vedremo se Renzi raggiungerà traguardi ambiziosi.

Come il Jobs act?
Certamente, perché la normale amministrazione non serve proprio a nessuno.

twitter@FDepalo

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