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Ecco perché da solo Draghi non risolverà i guai dell’Eurozona

Grazie all’autorizzazione del Gruppo Class Editori e all’autore, pubblichiamo l’analisi di Guido Salerno Aletta uscita sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi

Occhi puntati sulla Bce: ormai è sicuro che interverrà, giovedì prossimo, per correggere le due tendenze negative che caratterizzano l’Eurozona, il “credit gap” di cui soffrono le pmi ed un tasso di inflazione che si colloca molto al di sotto del 2%, considerato l’obiettivo di stabilità dei prezzi. Le quattro ipotesi fin qui prospettate riguardano la riduzione del tasso di riferimento, la introduzione di un tasso negativo sulle giacenze ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, il finanziamento on-budget delle banche vincolato alla erogazione di prestiti alle pmi ovvero off-budget mediante l’acquisto di Abs.

IL CONTESTO INTERNAZIONALE

Il contesto in cui la Bce si trova ad operare va letto nel contesto internazionale: la rivalutazione dell’euro su tutte le principali valute, cui abbiamo assistito da un anno e mezzo a questa parte, è un fattore che incide negativamente sia sulla inflazione sia sulla capacità di esportare. La riduzione del tasso di riferimento, e soprattutto l’ipotesi di tassare i depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, vanno quindi esaminate soprattutto per l’impatto che avrebbero sui movimenti di capitale: disincentivebbero l’afflusso di capitali ancora alla ricerca di alta e sicura remunerazione e di converso la vendita di euro contro dollari ed altre valute che bilancerebbe l’attivo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti dell’Eurozona, ora al 3% del pil. Siamo di fronte ad un trade-off: cercare di respingere afflussi di capitale che si muovono sui mercati finanziari e che fanno rivalutare l’euro sul dollaro senza privare di sostegno l’economia reale europea che invece si trova a fronteggiare in numerosi Paesi, tra cui l’Italia, ad un rilevante “credit gap”.

IL SISTEMA BANCARIO

Alle difficoltà dell’economia reale si è accompagnato in questi ultimi anni un altrettanto significativo stress per il sistema bancario: se l’obiettivo di mettere sotto controllo i deficit pubblici e gli squilibri della bilancia dei pagamenti correnti è stato ottenuto a prezzo di una pesante recessione e dell’aumento della disoccupazione, il sistema bancario è stato chiamato a perseguire politiche di risanamento e rafforzamento: attraverso la pulizia dei bilanci, svalutando o eliminando asset e crediti, ed aumentando il rapporto tra capitale ed impieghi. La contemporaneità, e soprattutto la incisività, delle misure adottate nel sistema bancario hanno avuto come conseguenza un più elevato moltiplicatore sul prodotto delle misure di correzione dei deficit pubblici. Il credit crunch, la riduzione del credito erogato all’economia reale, è stato rilevante, soprattutto negli ultimi due anni: per quanto riguarda l’Italia non si può solo affermare che il credito bancario all’economia (settore privato e PA) è aumentato tra il 2007 e lo scorso aprile da 1.673 miliardi a 1.848 miliardi, senza ricordare che ad aprile del 2012 il credito era arrivato a 1.949 miliardi: in 24 mesi la riduzione è stata di 100 miliardi. Sono stati 4 miliardi di credito in meno ogni mese, il -3% in ragione d’anno, da due anni a questa parte. Il credit crunch si è sommato agli effetti negativi delle misure fiscali assunte tra il 2008 ed il 2012, che sono stati stimati dall’Istat in 78 miliardi di euro, determinando una contrazione del pil di 5 punti percentuali.

I CREDITI IN SOFFERENZA

D’altra parte, il sistema bancario italiano si è trovato a fronteggiare una crescita esponenziale dei crediti in sofferenza per via della crisi economica: quelle lorde, a marzo scorso, sono state pari a 164,6 miliardi, rispetto ai 162 miliardi di febbraio. Non solo è subentrato nel finanziamento del debito pubblico a fronte dei ritiri e delle minori sottoscrizioni dall’estero, subendo per giunta un obbligo di maggior ricapitalizzazione per fronteggiare le perdite virtuali causate dal’aumento dello spread, ma è afflitto da un duplice “funding gap”: da una parte, la raccolta dalla clientela residente è inferiore agli impieghi (ad aprile scorso, rispettivamente 1.726 miliardi e 1.848 miliardi) e, dall’altra, la raccolta obbligazionaria diminuisce (sempre ad aprile, -5,4% anno su anno e -31 miliardi di euro in valore assoluto). I depositi della clientela, poi, sono sempre più liquidi: ciò riduce ulteriormente la possibilità di erogare credito a medio e lungo termine.

LA GESTIONE DEL RISPARMIO

A fronte delle difficoltà oggettive in cui si trova il sistema bancario italiano, si registra un vigoroso aumento della raccolta da parte dei fondi comuni e di gestione del risparmio: a fine aprile, il volume complessivamente raccolto dai gestori di diritto italiano è stato di 1.405 miliardi di euro, con un aumento di ben 36,5 miliardi dall’inizio anno, e di 74,7 miliardi rispetto al terzo trimestre del 2012. Un trend crescente, che riflette una veloce debancarizzazione della raccolta del risparmio rispetto ad un sistema economico ancora molto legato al credito bancario. Alla velocità ed alla libertà con cui i portafogli dei fondi di investimento e dei gestori del risparmio possono essere adeguati al mutare delle condizioni di mercato, corrisponde sul versante bancario un assetto in cui i vincoli regolatori sono crescenti e la dipendenza dall’economia reale del Paese in cui si opera è fortissima.

L’ABBASSAMENTO DEI TASSI

In questo contesto, un eventuale abbassamento dei tassi da parte della Bce avrebbe un impatto limitato, se non negativo, sulle banche e sulle imprese: al credito non si accede perché è troppo caro, ma semplicemente perchè è scarso, per una questione di raccolta bancaria insufficiente e di vincoli regolatori. Già oggi, poi, i margini di intermediazione sono bassi e la riduzione dello spread e dei tassi di interesse sui titoli di Stato italiani rende sempre meno utile sottoscriverli per dare copertura alle altre perdite sui crediti.

BCE IN DIFFICOLTA’

Adesso che servono risorse per l’economia reale, le banche ne sono a corto e la stessa Bce è in difficoltà: se finanzia tutto e tutti si scredita, ma se acquista solo gli Abs sul mercato non raggiunge lo scopo. E’ la scelta a monte, quella della banca universale, ad essere stata infausta: alla fine, ha danneggiato soprattutto le banche . All’inizio della crisi, hanno registrato perdite quelle che si erano improvvidamente esposte sui mercati finanziari, acquistando titoli dimostratisi tossici; poi quelle che in precedenza avevano disincentivato la detenzione dei titoli di Stato da parte dei cittadini-risparmiatori proponendo loro altri investimenti più lucrosi, e poi sono dovute subentrare con gravi danni agli investitori stranieri che si ritiravano all’improvviso. Infine, ora soffrono per le ricadute delle manovre fiscali sull’economia reale e non hanno mezzi per sostenerla: la decisione di mantenere la banca universale, facendo pagare un eventuale default ad obbligazionisti e depositanti, penalizza le banche sul versante della raccolta, le imprese e le famiglie sotto il profilo del credito.

NUOVA EMERGENZA

La coperta della Banca centrale come prestatore di ultima istanza non può coprire i rischi della banca universale. Neppure gli Stati possono arrivare a tanto. Ora, la Bce deve lanciare un’altra ciambella alle banche universali: affinchè eroghino credito alle famiglie ed alle pmi, vincolandole a fare il loro vecchio mestiere. Davvero un gran daffare, nuove toppe al solito buco.

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