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Il Corriere della Sera, ecco i mea culpa di de Bortoli oltre l’affondo su Renzi

Lo smantellamento della “narrazione renziana” compiuto da Ferruccio de Bortoli nel suo editoriale sul Corriere della Sera continua ad alimentare interrogativi e riflessioni.

Una critica che viene da lontano

Un elemento è certo. Le critiche inusitate espresse dal direttore del principale quotidiano del nostro Paese non hanno carattere effimero e passeggero.

A riprova della loro profonda maturazione è il ragionamento sviluppato dal giornalista nel corso della presentazione ieri, presso la Sala del Refettorio della Camera dei deputati, del libro “La nebbia del potere. La politica divisa tra il silenzio del Palazzo e l’urlo della Piazza” scritto da Marco Follini.

Un chiarimento necessario

Tra le mura del Parlamento la sua analisi acquista anzi uno spessore “politico”. Che fa presagire un forte coinvolgimento nella vita pubblica e civile quando terminerà l’esperienza al timone di Via Solferino.

L’unico punto interrogativo avvolge il nebuloso passaggio del suo editoriale dedicato alla massoneria. O meglio al richiamo, rivolto a Matteo Renzi, a “liberare il Patto del Nazareno dai sospetti compreso l’odore stantio di massoneria”.

Una frase “molto intrigante”, come ha osservato il saggista economico Giancarlo Galli, ma che per ora resta priva di spiegazione, anche se non mancano interpretazioni e indiscrezioni che giungono anche dai corridoi di via Solferino.

Renzi erede di Berlusconi

La bocciatura più eloquente de Bortoli la riserva alla Seconda Repubblica: “La quale, al contrario della prima, è stata costruita e animata attorno a figure carismatiche cui il popolo affida le speranze di rigenerazione e che tendono a fagocitare i loro stessi partiti attraverso le parabole personali”. Tendenza – rileva il direttore del Corriere – che ha trovato l’apice nell’epoca egemonizzata da Silvio Berlusconi ma si perpetua anche oggi.

Il giornalista non nomina mai il premier, ma pensa a lui quando parla del “prevalere dell’immagine e della forza comunicativa del leader”. E mette in guardia l’opinione pubblica dal coltivare un rapporto viscerale di amore o odio con tali personalità: “Atteggiamento che svilirebbe i cittadini a tifoserie”.

La missione della politica

Ai suoi occhi la manifestazione emblematica di questo fenomeno è costituita dal predominio e utilizzo dilagante della Rete e dei social network nel terreno politico-mediatico. Grazie a cui “gli attivisti partitici vengono identificati con i partecipanti più fanatici dei forum telematici. È il frutto della personalizzazione della politica, che ha modificato la conformazione stessa dell’opinione popolare”.

Ma per lui una classe politica dignitosa e rispettabile non può lasciarsi catturare da una deriva del genere. Anziché assecondarla furbescamente, è chiamata a governarla e sfidarla con un pensiero forte di ampio respiro. Ben sapendo che i problemi complessi delle società moderne richiedono risposte articolate e non semplicistiche.

L’autocritica sulle polemiche anti-Casta

È questo il punto cruciale del suo ragionamento. Il passaggio su cui il giornalista è pronto a fare una severa auto-critica a fianco di “tutti coloro che hanno promosso e alimentato negli anni campagne arrembanti contro la politica ridotta a Casta di privilegiati”.

L’opinione pubblica, rileva, deve capire che con il venir meno dei corpi intermedi la democrazia rappresentativa è stata impoverita e resa più fragile.

Nessun potere forte

E la povertà-debolezza della politica, rimarca il direttore del primo quotidiano del nostro Paese, ha travolto con sé il “sistema Italia”. Perché al suo posto non si sono affermati i famigerati “poteri economici forti”. “Luoghi vuoti, contenitori il più delle volte di piccole miserie”.

Realtà ben lontane – ed è qui un altro punto sorprendente nella sua riflessione – dai “poteri pubblici e privati che nella stagione della prima Repubblica mantenevano un equilibrio e controllo reciproco, erano ricche di figure di spessore, con una certa idea dell’Italia e un indolente senso di responsabilità nazionale”.

Un paragone impietoso

Nostalgia per la rete delle partecipazioni statali e per i grandi imprenditori della chimica, della meccanica, dell’informatica, delle telecomunicazioni, protagonisti dell’economia nazionale fino agli anni Ottanta?

Il giornalista non arriva a tanto. Ma spiega che gli industriali e i manager beneficiari delle privatizzazioni degli anni Novanta “hanno agito più da corsari rapaci che da capitalisti liberali”.

L’altro mea culpa

Un capitolo, quello della vendita e alienazione di comparti e gioielli produttivi pubblici, che a suo avviso richiederebbe un’accurata ricostruzione storica e un esame autocritico. Parole singolari per una persona che si è battuta da sempre a favore dell’apertura al mercato e delle dismissioni di quote del Tesoro nelle aziende statali.

Ma che rivelano il richiamo a una borghesia lombarda, operosa, pragmatica, illuministica. “Differente dagli odierni imprenditori che, pur essendo cosmopoliti, agiscono in modo individualistico e preferiscono astenersi dall’impegno pubblico”.

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