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Vi spiego la logica teatrale della Procura di Palermo su Napolitano. Parla Giovanni Pellegrino

La vicenda giudiziaria della presunta trattativa fra istituzioni repubblicane ed esponenti di Cosa nostra nel biennio 1992-1993 si arricchisce di un nuovo capitolo. Accogliendo la richiesta dell’accusa capitanata dal pm Antonino Di Matteo, la Corte di Assise di Palermo ha deciso che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deporrà al processo per fornire la propria testimonianza.

Il Capo dello Stato, già citato come teste il 17 ottobre 2013, verrà ascoltato al Quirinale riguardo la lettera ricevuta dal suo consigliere giuridico dell’epoca Loris D’Ambrosio a seguito della pubblicazione delle telefonate tra quest’ultimo e l’ex capo del Viminale Nicola Mancino. Nella missiva il giurista temeva di “essere stato considerato un ingenuo scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi nel periodo tra il 1989 e il 1993”.

Parole che richiamano una fase nebulosa e mai pienamente illuminata della storia italiana. Per tentare di fare chiarezza Formiche.net ha sentito Giovanni Pellegrino, avvocato con spiccata sensibilità garantista, già parlamentare dei Democratici di sinistra e presidente della Commissione stragi dal 1996 al 2001.

Come valuta la decisione assunta dai giudici di Palermo?

La testimonianza è stata ammessa in modo legittimo. Così come lo è il fatto che il Presidente della Repubblica verrà ascoltato al Quirinale. Ma su che cosa sarà sentito Giorgio Napolitano? Certamente solo sul contenuto della lettera trasmessa da Loris D’ambrosio. Documento che il Capo dello Stato ha scelto autonomamente di rendere pubblico, e sui cui contenuti ha già dichiarato di non avere informazioni ulteriori che possano essere di qualche utilità per il processo. La Corte d’Assise non potrà che prendere atto della probabile conferma di questa affermazione, senza poter spingere più in là l’esame del teste.

Perché?

La Corte Costituzionale ha stabilito che le intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino dovevano essere distrutte. Riconoscendo così ancora una volta al Capo dello Stato un’area di riservatezza molto più ampia rispetto agli altri cittadini e agli stessi politici. Non capisco pertanto quale utilità possano avere i giudici nell’ascoltarne la testimonianza.

Lei quale risposta si è dato?

La deposizione del Presidente della Repubblica, con tutta la scia di polemiche giornalistiche facilmente prevedibile, può servire alla “logica di teatro” che sta ispirando il processo in corso a Palermo.

Logica teatrale?

Sì. Il capo di accusa che coinvolge Mancino – la falsa testimonianza – rientra nella competenza di un tribunale ordinario. Così come la più grave imputazione di attentato mediante violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Crimine del quale rispondono tutti gli altri imputati istituzionali. Ma vi è una novità.

Quale?

L’originaria estensione dell’imputazione a Bernardo Provenzano, Salvatore Riina e ad altri uomini di Cosa Nostra chiama a rispondere anche di reati di competenza della Corte d’Assise. E ha consentito che l’intero processo si celebri dinanzi a un organo giudicante cui partecipano giudici popolari con tanto di fascia tricolore.

Ma non è clamoroso che un capo dello Stato venga chiamato a testimoniare su un passaggio oscuro della storia repubblicana?

È eclatante per i giornalisti, ma rientra in una normale logica istituzionale nel rispetto delle garanzie e dei limiti con cui deve avvenire l’ascolto del Capo dello Stato come teste. Una volta l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, commemorando Aldo Moro nell’Aula di Montecitorio, affermò che le istituzioni erano riuscite a catturare i “colonnelli”, e non i “generali” delle Brigate rosse responsabili del sequestro e dell’omicidio dello statista democratico-cristiano. Parole pesanti, meritevoli di spiegazione per la Commissione parlamentare sulle stragi che all’epoca presiedevo.

Cosa avvenne?

Ci rendemmo subito conto che non potevamo convocare Scalfaro a Palazzo San Macuto per una formale audizione. A quel punto una nostra rappresentanza decise di recarsi al Quirinale per parlarne. Il Capo dello Stato ci ricevette con cortesia, precisò che aveva voluto esprimere dubbi personali e ci congedò. Tutto si concluse in poche ore senza clamore.

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