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Chi elogia e chi stronca il film La Trattativa di Sabina Guzzanti

Era destinato ad alimentare polemiche roventi. E, come già accaduto nel corso della presentazione al Festival di Venezia, #La Trattativa di Sabina Guzzanti non ha tradito le attese con l’uscita nei cinema italiani.

Uno snodo storico

Costruito attorno al presunto patto realizzato tra apparati istituzionali e capi di Cosa nostra a cavallo fra prima e seconda Repubblica, il film è un racconto e un atto di denuncia.

Aderendo alla ricostruzione dell’accusa nel processo in corso a Palermo, la regista ripercorre le tappe della lunga stagione di sangue stabilita dai boss mafiosi nell’inverno 1991. Quando era imminente la storica conferma in Corte di Cassazione delle condanne del Maxi-processo istruito dal pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Strategia che dopo aver devastato la Sicilia e l’Italia nel 1992 e 1993 si interruppe clamorosamente nel gennaio 1994. Non tanto – è la tesi dell’autrice satirica – per il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma, bensì per l’entrata in politica di Silvio Berlusconi. Figura che con Forza Italia e Marcello Dell’Utri poteva “garantire il nuovo equilibrio politico-mafioso perseguito da Totò Riina con l’avvio della campagna di attentati dinamitardi”.

Scarsa fiducia nel processo di Palermo?

Guzzanti comprende nella narrazione tutti i protagonisti della vicenda: politici, malavitosi, ufficiali delle forze dell’ordine, massoni, agenti dei servizi segreti, magistrati. Una carrellata da cui non resta fuori neanche Giorgio Napolitano, che i giudici della Corte d’Assise del capoluogo siciliano ascolteranno riguardo le comunicazioni intercorse tra il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio e l’ex capo del Viminale Nicola Mancino.

Tuttavia l’attrice-regista non appare fiduciosa nella forza e nella capacità rivelatrice del processo sulla presunta trattativa. Lo si evince nella ricostruzione immaginaria del contenuto della celebre agenda rossa di Borsellino misteriosamente scomparsa nei minuti seguenti il suo assassinio: “È impossibile pervenire alla verità nelle aule di giustizia, vista la reiterata eliminazione di prove e testimoni preziosi. Ed è inutile un tribunale per rivelare che oggi mafia e corruzione sono più forti di vent’anni fa”.

Il pregio del film

Una licenza cinematografica che sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio giudica strepitosa. L’unica nota fuori luogo ai suoi occhi resta l’immagine dell’allora procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli incerto, smarrito e arrendevole nei confronti della mancata vigilanza e perquisizione del covo di Riina da parte del Ros dei Carabinieri capitanato da Mario Mori.

“Per tutto il resto – scrive il condirettore del giornale diretto da Antonio Padellaro – il film  è un’opera di impegno civile che riesce a far ridere in una storia tutta da piangere, ricca di aspetti grotteschi e paradossali che nascono dal cortocircuito di uno Stato costretto a giustificare i patti con l’anti-Stato”.

I limiti dell’opera

Riflessione radicalmente opposta svolge sul Giornale Pedro Armocida. Il quale scorge ne #La Trattativa il riflesso dell’onda lunga di un Novecento ideologico che continua a travolgere l’Italia proiettata nel futuro.

Più equidistante la valutazione espressa su La Sicilia da Maria Lombardo. Rimarcando come il film “poco o nulla aggiunga a quanto conosciamo” e criticando la “riproposizione evitabile dell’ennesima maschera di Berlusconi”, la giornalista apprezza “la ricostruzione ampia e a mosaico di tasselli che sui giornali si leggono separatamente”.

Una propensione italiana portata alla luce

Grande entusiasmo per l’opera è manifestato su Pagina 99 da Mariuccia Ciotta. La quale non esita a parlare di “cinema-verità, autentico come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco”. A suo giudizio, Guzzanti orchestra materiale incandescente, suggerisce connessioni, sferra colpi seminando interrogativi più che risposte.

Il “ritorno al cinema di indagine sulla realtà degli ultimi vent’anni di vita italiana” viene salutato su Dagospia da Marco Giusti. Per il quale il film interpella nel profondo l’attitudine all’accordo con il potere mafioso radicata nel costume nazionale.

Lo spirito e il senso de #La Trattativa, scrive il critico, si può cogliere appieno con la scena finale del malavitoso-collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che si commuove pensando al sorriso impresso nel volto di Don Pino Puglisi appena assassinato.

Una narrazione priva di riscontri

Una stroncatura ai pilastri culturali del film giunge sul Foglio per mano di Guido Vitiello: “Una storia raccontata attraverso libri, memoriali, film, serie tv, romanzi, fumetti, che cooperano per dar forma a un universo narrativo labirintico, disseminato, capace di espandersi all’infinito e in ogni direzione. Rispetto a tutto ciò le udienze sono la cosa meno importante”.

Nel film – spiega la firma della testata diretta da Giuliano Ferrara – confluiscono pezzi di vecchi processi già finiti in assoluzione, ipotesi investigative scartate, indagini bloccate sulla soglia del rinvio a giudizio, mozziconi di verbali e intercettazioni, libri-intervista dei magistrati sulle inchieste di cui sono titolari. Tutto concorre, grazie al robusto e martellante avallo mediatico, a consolidare congetture non suffragate da sufficienti prove.

Una rete troppo estesa

Congetture come la rete di appoggi forniti al progetto confederale fondato su tre macro-regioni coltivato da Cosa nostra nell’estate 1992. Nell’opera di Guzzanti, l’aspirazione dei boss mafiosi a rendere il Mezzogiorno una realtà di fatto indipendente – facendo leva sul fiorire di “leghe meridionali” speculari al Carroccio di Umberto Bossi – gode di sostegni molto vasti.

Troppo, considerando la scena surreale della processione che vede malavitosi e massoni concordare il disegno secessionista, con la piena adesione del governo Usa per voce di un rappresentante dell’intelligence statunitense rigorosamente incappucciato.

L’atto di nascita di Forza Italia

Congetture come le ipotesi ricche di incongruenze riguardo le vere origini politiche di Forza Italia. Radici che il film e taluni magistrati fanno risalire a un anno prima di quanto finora accertato. Esattamente nella torbida estate 1992, con un piano messo a punto per iniziativa di Dell’Utri.

Il progetto, raccontano diversi pentiti mafiosi, avrebbe dovuto promuovere un pacchetto di misure favorevoli a Cosa nostra sul piano legislativo: revoca del regime di carcere duro per i boss, annullamento della protezione riservata ai collaboratori di giustizia, rinuncia alla confisca dei beni e ricchezze sequestrate alle cosche.

L’opera cinematografica non chiarisce se l’ex Cavaliere ne era al corrente, se fosse concorde o contrario. Un elemento è fuori discussione: tali richieste non vennero mai accolte dai governi di centro-destra.

Una lettura ricorrente

Ma la tesi che più di ogni altra meriterebbe un lavoro rigoroso storico-scientifico tocca il cuore della riflessione dell’autrice satirica. Ai cui occhi gli attentati mafiosi degli anni Novanta rientrano nel capitolo eterno e oscuro delle stragi prive di mandanti che hanno costellato la storia repubblicana.

E possono essere ricomprese nella “strategia della tensione” che fin dall’eccidio di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 avrebbe visto politici di governo, criminalità organizzata, apparati deviati delle istituzioni, dei servizi segreti e delle forze armate, logge massoniche occulte, estremisti neo-fascisti, concorrere con la “copertura e le complicità atlantiche” a seminare il terrore per fermare sul nascere l’avvento al governo delle forze politiche e sindacali progressiste.

Come nel 1947, 1964, 1969, nella prima metà degli anni Settanta, anche nel 1992-1994 vi era un “pericolo rosso” da sventare ricorrendo a crimini feroci perpetrati dallo stesso patto di potere? E il “cambiamento” era realmente rappresentato dalla “gioiosa macchina da guerra” che in quei mesi andava costruendo il PDS di Achille Occhetto?

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