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Vi spiego perché la manovra di Renzi non è espansiva. Parla Gianfranco Polillo

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“Significativa deviazione dagli aggiustamenti richiesti per centrare l’obiettivo di medio termine”. Il passaggio più rilevante della lettera trasmessa dal Commissario europeo per gli Affari economici e monetari Jyrki Katainen al premier Matteo Renzi risuona come un pesante monito sulla Legge di stabilità.

L’esecutivo comunitario nutre forti dubbi e richiede chiarimenti su riduzione del deficit, coperture di maggiori spese e minori entrate, tempi e modi delle riforme. Rilievi istituzionali che si affiancano alle critiche avanzate da analisti di diversi orientamenti nei confronti della manovra. Tra loro vi è Gianfranco Polillo, economista e già sottosegretario al Tesoro nel governo Monti.

La “pagellina” scritta dalla Commissione Ue segna una bocciatura per il governo Renzi?

Al di là del galateo, la lettera è molto ferma. Non concede sconti e si prefigura come il primo passo di una possibile procedura d’infrazione. Bruxelles ribadisce innanzitutto che i conti vanno fatti sui dati elaborati dalla Commissione. Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ne aveva contestato la metodologia, ai fini della determinazione per l’Italia dei valori effettivi del saldo strutturale di bilancio. Inoltre si chiedono interventi già nel 2015, respingendo di fatto l’ipotesi di rinviare agli anni successivi il proposito di ridurre il suo squilibrio. Quindi una manovra ben più pesante. Il riferimento poi agli “eventi eccezionali” su cui il governo aveva più volte insistito – la continua caduta del PIL negli ultimi tre anni – non è stata presa in considerazione. Si dovranno pertanto fornire ulteriori giustificazioni.

Lei che voto dà alla Legge di stabilità presentata dal governo Renzi?

Stiamo ragionando su elementi provvisori. Nell’attesa di leggere il testo e la nota tecnica di accompagnamento, rilevo che la coda del diavolo si annida nei dettagli. La manovra doveva essere presentata il 15 ottobre. Ieri era il 23. Nel frattempo la bozza di legge è stata inviata al capo dello Stato senza il timbro della Ragioneria generale dello Stato. Fatto pervenire il giorno successivo. Essa è poi del tutto disallineata rispetto al Documento di economia e finanza, che prevedeva un importo attorno ai 25 miliardi di euro. Contro i 36 poi decisi.

È un fatto grave?

Il Def fornisce al Parlamento il quadro economico complessivo e calcola i possibili effetti sull’economia reale. Serve a orientare le scelte dei mercati e a sedimentare un giudizio più articolato da parte delle agenzie di rating. Ma se cambiano improvvisamente le scelte, senza modificare i dati posti a loro supporto, non è possibile esprimere un giudizio attendibile. Ci troviamo di fronte a una manovra al buio. In aperta violazione di procedure consolidate che risalgono al 1978, con il rischio di percorrere una strada sconosciuta e imprevedibile. È un precedente pericoloso.

La manovra messa in campo dal premier è espansiva?

Lo è nel brevissimo periodo, grazie al passaggio dal 2,2 al 2,9 per cento nel rapporto deficit-PIL. Misura che libera 11 miliardi di euro per supportare l’economia. Ma non credo possa mantenere tale profilo nei prossimi tre anni.

Perché?

A partire dal 2016 è previsto un aumento della pressione fiscale tra 20 e 30 miliardi per lo scatto delle “clausole di salvaguarda”. Strumenti vengono attivati nel caso di intralci nel piano di taglio della spesa pubblica. Si tratta di tributi che andranno ad aggiungersi agli incrementi già programmati dei prelievi su fondi pensione, risparmio, accise e fondazioni bancarie. Peraltro riscontro un ulteriore elemento di ambiguità.

Quale?

L’80 per cento della Legge di stabilità privilegia i consumi. Fattore aleatorio, come rivela l’esperienza degli 80 euro a favore dei lavoratori dipendenti con reddito più ridotto. Il 20 per cento premia l’attività di investimento. Risorse che vogliono favorire una ristrutturazione dell’offerta. Sennonché i suoi tempi non sono immediati. Il rischio maggiore è che questo processo sia vanificato dalla sensazione che già a partire dal 2016 vi sarà la stretta dei consumi, a seguito dell’attivazione delle misure di salvaguardia: 20 miliardi di maggiori imposte contro una spinta di 11 miliardi – il maggior deficit del 2015 – ormai alle nostre spalle. In questa zona grigia, in cui i consumi aumentano ma non la produttività delle imprese, il rischio più evidente è quello di vedere crescere le importazioni, più competitive, con effetti negativi sulla dinamica del PIL.

La convincono le coperture finanziarie ai tagli fiscali?

Le trovo molto labili. Sarebbero state forti rispettando la ricetta indicata dal Commissario alla revisione della spesa pubblica Carlo Cottarelli: tagli rigorosi e mirati, che potrebbero scaturire da privatizzazioni e sfoltimento delle aziende partecipate.

Il premier non ha agito in tale direzione?

Il governo ha previsto solo tagli lineari delle spese, come era avvenuto nel 2010 e nel 2011. Allora però i margini di intervento erano molto più ampi. Non so se a fine anno avremo i risparmi preannunciati da Renzi. Che dovrebbero ammontare a ben 15 miliardi. È più probabile, pertanto, che scattino le misure di salvaguardia, con effetti recessivi di notevoli dimensioni. Visto che il loro peso cumulato dal 2016 al 2018 ammonterà a ben 51,6 miliardi.

Teme il perpetuarsi della spirale recessiva?

Sì. Perché non bastano i limitati sgravi fiscali a favore della maggiore occupazione. Essi devono coincidere, nei tempi, con la riforma del mercato del lavoro, che invece tarda ad arrivare in porto. Nel 2016, quando lo scenario sarà propizio per una politica coraggiosa delle aziende, il mondo produttivo si scontrerà con la nuova caduta dei consumi provocati dall’incremento delle tasse.

Palazzo Chigi poteva fare di più per stimolare la crescita?

Era necessario completare subito la riforma del lavoro. A partire dal nuovo regime relativo ai licenziamenti. Per promuovere poi una seria manovra espansiva. E ingaggiare una campagna nell’Unione Europea allo scopo di convincere la Germania a mettere in comune risorse per lo sviluppo economico comunitario lasciando correre il tasso di inflazione. In cambio Francia e Italia avrebbero dovuto realizzare le indispensabili riforme. Tra l’altro questa è l’unica strada per evitare l’attuale rivalutazione dell’euro nei confronti del dollaro e dello yen. Siamo oltre 25 punti oltre la parità teorica che dovrebbe essere data dal rapporto uno ad uno. Rivalutazione che impedisce all’Europa di poter contare su un maggior volume di esportazioni nei confronti del resto del mondo. Che sono una delle componenti più dinamiche dello sviluppo.

È una strada realistica?

Bisogna compiere un salto di qualità nella costruzione europea. Altrimenti l’Unione monetaria subirà contraccolpi seri. Fino alla possibile disintegrazione dell’euro. Ma serve un’Italia animata dalla volontà di cambiamento nell’affrontare il problema irrisolto della sua bassa produttività. Basti pensare che negli ultimi 5 anni il costo del lavoro per unità di prodotto nel nostro paese è stato superiore di 5 punti percentuali rispetto alla media europea.

Chi ha ragione nel conflitto tra Renzi e Regioni sui tagli alla spesa pubblica locale?

Il premier, almeno in linea di principio. Ricordo che il 60 per cento della spesa pubblica italiana, al netto degli interessi e della previdenza, è gestito dagli enti locali. Autentico “corpaccione” delle istituzioni repubblicane rispetto a cui il governo nazionale rappresenta una “testa” fin troppo piccola. Tuttavia nel nostro Paese manca un modello federale, e non vi è spazio per un tentativo di “socialismo locale virtuoso” – tasse elevate e buoni servizi – accompagnato da un riscontro elettorale democratico. Le entrate delle regioni e  dei comuni sono centralizzate, grazie ai considerevoli trasferimenti statali, che hanno alla base buona parte delle entrate fiscali, raccolte al centro. Mentre le uscite sono decentrate. È un modello che toglie responsabilità e rischia ogni giorno di implodere.

Comuni e regioni hanno lo spazio per procedere a risparmi rilevanti?

Vi sono ampi margini in tal senso. Ma sono distribuiti in forma “anarchica”, tra realtà virtuose ed enti che dilapidano risorse. Uno scenario nel quale non hanno logica i tagli lineari prospettati dal governo. Pensi che il Comune di Roma conta 60mila dipendenti. Cifra indecorosa rispetto al livello delle prestazioni fornite ai cittadini. Ma intervenire in questa galassia vuol dire imporre dure razionalizzazioni. Fornire servizi corrispondenti all’entità delle risorse disponibili o tagliare inefficienti posti di lavoro. Quest’ultima non è una scelta facile. Nemmeno auspicabile. Ma ormai siamo giunti ad un bivio. Occorre una grande illuminazione collettiva per evitare possibili ed inevitabili disastri.

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