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Benvenuti a Roma, capitale della desertificazione politica

Le cronache sull’inchiesta giudiziaria chiamata “Mafia Capitale” hanno ormai diffuso tanto diserbante sulla politica capitolina che è penosa l’illusione sia della sinistra sia della destra di poter recuperare fiducia, o di crearne di nuova, attorno a chissà quale sortilegio.

L’una e l’altra, la sinistra e la destra, escono dalla vicenda con le ossa semplicemente rotte, per quanti sforzi abbiano fatto, facciano e vogliano ancora fare di scaricarsi a vicenda la dose maggiore di responsabilità. E per quanta ostinazione ci metterà il sindaco Ignazio Marino a rimanere ancora al suo posto cambiando assessori di qua e di là. La sua figura risulta sempre più inadeguata alla situazione. Le sue bugie o mezze verità si sovrappongono impietosamente, mentre gli uffici della sua amministrazione vengono sottoposti alle verifiche sostanzialmente già commissariali della prefettura, cioè del governo.

Il fatto che il sindaco sia rapidamente passato dalla insofferenza alla difesa da parte del suo partito, da una condizione quasi di sfratto a quella di una trincea finalizzata a scongiurare lo scioglimento del Consiglio Comunale con le procedure dell’antimafia, è più un’illusione ottica che una realtà. Ci vuole una dose smisurata d’ingenuità per credere che davvero un sindaco così malmesso come quello di Roma possa vivere politicamente e amministrativamente solo del sostegno di un organismo locale di partito come il suo. Che per la sola condizione di commissariamento in cui è stato messo dal segretario nazionale, nonché presidente del Consiglio, non può dire di godere di buona salute politica. Se poi si considera che il commissario, per quanto anche presidente dell’assemblea nazionale del Pd, Matteo Orfini, è un esponente romano, e non proveniente da altro posto, come di solito avviene per commissariamenti veri e credibili, il quadro della debolezza del sindaco di Roma, e conseguentemente di tutta l’amministrazione capitolina, risulta in tutta la sua desolante e non rimediabile evidenza.

Mafia o non mafia, il Campidoglio è politicamente desertificato. La sinistra non potrà a lungo conservarne il controllo dopo avere consentito e favorito sia dai tempi del sindaco Francesco Rutelli e poi di Walter Veltroni quel bubbone delle cooperative rosse, ma in piccola misura anche bianche, che hanno spolpato come un osso per affari di bassa lega le emergenze sociali di Roma e dintorni. E la destra, neppure indossando le minigonne della giovane Giorgia Meloni, dopo i pantaloni di Giovanni Alemanno, riuscirà a farsi perdonare l’epilogo fallimentare della sua breve stagione al vertice del Campidoglio.

Su ItaliaOggi il direttore Pierluigi Magnaschi ha descritto in modo efficacemente impietoso ciò che è accaduto a Roma dopo l’elezione di Alemanno a sindaco, nel 2008. La sinistra delle cooperative, sentendosi in pericolo con il cambio di guardia capitolina, ha cercato e trovato aiuto negli ambienti di destra di cui condivideva le provenienze meno raccomandabili. Tra ex detenuti come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati si è fatto presto a intendersi per sfruttare le occasioni offerte da una politica insieme disinvolta e sprovveduta, facile a scambiare lucciole per lanterne ma anche a trarne a sua volta profitto, barattando concessioni facili, e rinunce ad appalti doverosi o trasparenti, con finanziamenti a uomini, partiti e campagne elettorali di colore opposto.

Alemanno ha cercato di giustificare il suo cedimento alle pratiche ereditate dalle precedenti amministrazioni dicendo di averlo fatto per “non passare come quello di destra che fa fuori quelli di sinistra”. Ma così egli ha confessato tutta la sua disarmante inadeguatezza politica agli occhi di un elettorato, quello di destra, il suo, che ingenuamente ma giustamente si aspettava proprio ciò che lui non si è sentito di fare per un sorprendente, imperdonabile complesso non si sa bene se più di superiorità o d’inferiorità, sicuramente di opportunismo.

Quello di Alemanno e della destra romana è un fallimento che impedisce all’uno e all’altra anche di rimproverare a quel furbacchione di Marino i favori ricevuti da Buzzi e poi ricambiati appena avvicinatosi o insediatosi in Campidoglio, con affitti scontati e simili.  Sono più o meno gli stessi favori ricevuti e ricambiati dal predecessore più diretto di Marino. Che aveva volontariamente rinunciato ad essere l’antagonista della sinistra capitolina per diventarne solo il concorrente. Brutto, bruttissimo affare.

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