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La Turchia va a fare la guerra al Califfo (ma non facciamo i frettolosi)

Perugia ─ «Erano ragazze e ragazzi che credevano nella possibilità di cambiare il mondo attraverso l’impegno politico. È per questo che li hanno uccisi» ha scritto il direttore di Internazionale Giovanni De Mauro in un editoriale dal titolo “Possibilità”. Si riferisce ai trenta ragazzi uccisi dalla bomba esplosa nel centro culturale Amara di Suruc, città turca prossima al confine siriano. Erano diretti a Kobane, l’enclave che i curdi hanno difeso (e ripreso) con i denti dagli attacchi dello Stato islamico e che è diventata simbolo globale della resistenza del popolo del Rojava, il “kurdistan” siriano ─ e contemporaneamente simbolo altrettanto globale di una delle più cocenti e cogenti sconfitte dell’IS. I giovani dell’Amara avevano in progetto di costruire una biblioteca, piantare degli alberi, attrezzare un campo giochi: vedevano la possibilità di far rinascere una città dalle macerie della guerra. Per questo il kamikaze del Califfo ha seminato la morte tra loro ─ è la strategia della paura, del caos, quella che si definisce nel libro “Idaraat al Tawahush“, ossia la gestione delle barbarie: che secondo alcuni ideologi del radicalismo islamico deve essere il primo passaggio del Califfato.

Dopo l’attentato di Suruc ci sono state diverse polemiche (a cui sono seguite manifestazioni e scontri) che hanno turbato il forzato equilibrio politico turco. C’è stato addirittura chi è arrivato a dire che dietro alla vicenda ci fosse la mano lunga e insanguinata dei servizi segreti di Ankara, che avevano spalancato la porta all’attentatore, permettendogli di colpire i “nemici” curdi ─ vedremo con il corso delle inchieste se la ricostruzione è esagerata come sembra, anche se sul coinvolgimento dei servizi turchi negli affari sporchi dei ribelli radicali in Siria pesano storie pregresse, come dimostrato per esempio da un’inchiesta di Reuters che aveva tracciato l’invio di camion di armi attraverso il confine: spedizioni facilitate dal MIT (l’intelligence di Ankara), con le armi che poi sono finite pure in mano agli uomini del Califfo. Chi sostiene l’ipotesi (della specie) di inside job, diciamo così, si fonda anche su un fatto sostanzialmente comprovato: la Turchia considera i curdi, in particolare quelli interni del Pkk, nemici alla stregua del Califfato. Anzi.

Dunque chi sostiene che la reazione militare di Ankara contro lo Stato islamico di giovedì ─ preceduta dalla decisione di aprire la base militare di Incirlik, nella provincia meridionale di Adana, agli aerei americani della Coalizione internazionale che combatte il Califfo ─ una reazione ai fatti di Suruc, non centra bene il punto. Anche se è vero che la vicenda ha fortemente sensibilizzato l’opinione pubblica ─ le immagini uscite dal centro dei giovani socialisti al sud della Turchia appena dopo l’attentato, erano agghiaccianti. Ma c’è di più.

Nella mattina di giovedì, dopo mesi e mesi di tentennamenti e ambiguità, di litigi con gli alleati Nato e di manovre solitarie e azioni unilaterali, la Turchia ha attaccato per la prima volta le postazioni del Califfato appena oltre il confine siriano, uccidendo 35 militanti. Raid aerei con gli F-16 decollati da Diyarbakir, preceduti già nella serata di mercoledì da colpi di artiglieria verso mezzi dell’IS, sparati dopo che un soldato turco era rimasto ucciso in un conflitto a fuoco sul confine. La Tv di Stato turca, ci ha tenuto a sottolineare che negli attacchi non c’è stata violazione della sovranità territoriale siriana ─ invece altri media hanno scritto che Damasco era stata avvisato dell’operazione.

Sembra un allineamento con le dinamiche della Coalizione internazionale ─ dinamiche sostenute da quasi tutti gli alleati occidentali di Anakara (già, perché Ankara in questo momento storico è un importante asset dell’Occidente, anche dal punto di vista energetico, nonché membro Nato). Washington ha definito la decisione di aprire Incirlik (e in caso di emergenze, per ora non meglio specificate, anche altre basi aeree), «una svolta» ─ in realtà arrivata dopo mesi di richieste e pressioni. Possibile, visto che così gli aerei della Coalizione diretti in Siria (cioè quelli americani), potranno effettuare voli molto più brevi: risultato, oltre il risparmio di carburante ─ che per una missione onerosa come si sta rivelando “Inherent Resolve” è solo un bene ─ c’è la facilità operativa. Ora gli airstrike potranno arrivare con maggiore rapidità, rendendo più efficaci le segnalazioni e le osservazioni di intelligence. Gli stessi droni, decollando da una base più vicina al teatro operativo, potranno aumentare la loro autonomia e dunque accrescere le ore di osservazione in missione. (L’accordo sull’uso della base, sembra sia arrivato mercoledì, dopo che il presidente americano Barack Obama ha chiamato al telefono il suo omologo turco Recep Tayyp Erdogan per esprimere il proprio cordoglio per l’attentato a Suruc).

Ufficialmente la Turchia ha sempre negato qualsiasi genere di coinvolgimento nel sostegno dei ribelli radicali siriani, ma come detto ci sono prove abbastanza chiare sul ruolo svolto nelle zone d’ombre che coprono il reclutamento, il passaggio oltre confine e l’armamento dei mujaheddin. Con la stessa ufficialità, Ankara ha sempre sostenuto che il suo agreement alla Coalizione era vincolato a un specifica regola d’ingaggio: non si poteva combattere solo l’IS, ma anche il governo siriano di Bashar al Assad. Anche qui, come per i curdi, il regime di Damasco è considerato dalla Turchia un nemico più preoccupante del Califfato.

Ora,però, forse qualcosa sta cambiando. Il mostro silenziosamente sopportato (e con probabilità in parte supportato) si è rivoltato contro. La presenza all’interno del Paese di cellule di reclutamento e di numerose facilitazioni dell’IS, diffuse nel territorio turco senza più controllo, sta impensierendo Ankara, ed è probabilmente questo il reale motivo dell’azione ─ mettere un freno, dare un segnale, imporre nuovamente dei paletti, ricreare un equilibrio (la Turchia non è solitamente oggetto degli attacchi e delle invettive dell’IS). La paura di Erdogan, insomma, è che la violenza terroristica passi al di qua del confine siriano ─ di là invece più che un pericolo è da sempre considerata un proxy per rovesciare Assad. E in questo, l’attentato contro “gli amici di Kobane” a Suruc, è preoccupante: non tanto perché lascia a terra straziati dall’esplosione 32 giovani volontari e pacifici, ma perché effettuato dall’IS all’interno della Turchia ─ il presunto attentatore, sarebbe entrato illegalmente in Siria a gennaio, e dopo aver ricevuto un addestramento militare in un campo del Califfato, è tornato in Turchia a maggio: con lui c’era suo fratello, la polizia lo sta cercando perché si teme che abbia in progetto un nuovo attacco.

Nella mattinata di venerdì, la polizia turca ha condotto il più grosso rastrellamento dall’inizio del conflitto siriano. Una grande operazione che ha portato all’arresto di oltre 290 persone quasi tutte ritenute membri di cellule terroristiche legate allo Stato islamico. Il “quasi tutte”, sta qui con un peso politico: perché infatti tra gli arrestati dalla polizia turca ci sono anche alcuni militanti curdi e altri del Dhkp-c, Fronte rivoluzionario per la liberazione del popolo, partito marxista-leninista, critico con il governo perché considerato “servo dell’imperialismo occidentale”, e protagonista in passato di azioni violente ─ due membri del Dhkp-c hanno sequestrato, a marzo, nel suo ufficio di Istanbul, il procuratore Mehmet Selim Kiraz: l’azione terroristica è culminata con la morte degli attentatori e dell’ostaggio. Ancora: pare che tra gli obiettivi dei caccia turchi che hanno condotto il secondo set di bombardamenti, avvenuto nella nottata appena trascorsa, siano finiti anche campi dei militanti curdi del Pkk (nell’area prossima la nord dell’Iraq) ─ mentre il Pkk aveva rivendicato mercoledì l’uccisione di due agenti di polizia al confine con la Siria, ritenuti collusi con l’IS, in rappresaglia ai fatti di Suruc. Questo per dire che, sì la Turchia forse sta aumentando (per pragmatismo e necessità) il suo impegno contro il Califfo, ma non perde certo di vista la propria agenda e la propria priorità di interessi ─ e sui punti in cima alla lista, ci sono i curdi, le opposizioni interne (Erdogan parla sempre di «gruppi di terroristi» accomunandoli tutti sotto una stessa etichetta) e poi c’è Assad.

In realtà, l’attività contro le cellule interne dell’IS è ufficialmente iniziata da tempo, ma ha avuto un’ulteriore spinta dal 10 luglio in poi, anche se con operazioni molto più limitate e puntuali di quelle degli ultimi giorni, che per questo non hanno avuto troppo risalto mediatico. La Turchia ha annunciato anche la costruzione di un muro con sorveglianza armata lungo il confine siriano ─ notizia che invece ha avuto un ottimo ritorno sui media. Droni, palloni aerostatici con sensori e telecamere, pattuglie di soldati, cercheranno di limitare il passaggio (da e per la Siria) di combattenti e potenziali terroristi. Proprio là, in quella lunga linea di confine che è la principale rotta per arrivare al jihad siro-iracheno, e su cui le autorità turche hanno finora molto spesso chiuso entrambi gli occhi.

E tutto avviene in un momento politicamente molto delicato: il premier incaricato Ahmet Davutoglu, del Partito giustizia e sviluppo (Akp), ha ricevuto l’incarico di comporre il governo dal suo mentore Erdogan il 9 luglio, ma ancora non ha trovato la giusta quadra. E alcuni dei leader politici turchi hanno già iniziato delle consultazioni con le ramificazioni territoriali dei propri partiti, in vista di possibili elezioni anticipate.

@danemblog

(Foto: archivio Formiche)

 

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