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Così Gianni De Michelis promuove la politica estera di Renzi e Mogherini, ma sugli F-35…

La politica estera del governo di Matteo Renzi? Una miscela di visione liberal incarnata da Barack Obama e di ambivalenza “andreottiana” accondiscendente verso le richieste dell’autocrate di turno. Nell’editoriale “La diplomazia senza forza” pubblicato sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco ha bocciato la filosofia formulata dal ministro degli Esteri Federica Mogherini in una recente intervista al Foglio.

Al centro delle valutazioni critiche espresse dallo scienziato politico vi è la pervicace ostilità e diffidenza nei confronti della minaccia del ricorso alla forza nelle crisi internazionali più roventi. Riluttanza che a suo giudizio pone le democrazie occidentali in uno stato di arrendevolezza nei confronti dei comportamenti aggressivi di governi tirannici.

Una lettura che trova profondo dissenso nel ragionamento di Gianni De Michelis, protagonista della storia del Partito socialista italiano, responsabile della Farnesina tra gli anni Ottanta e Novanta, presidente dell’Istituto per le relazioni tra l’Italia e i paesi dell’Africa, America Latina, Medio ed Estremo Oriente. Ecco l’intervista all’ex ministro degli Esteri nell’ambito di una serie di approfondimenti sul tema.

Condivide l’analisi di Panebianco sulla politica estera di Barack Obama?

Ritengo che non rappresenti una visione corretta della strategia portata avanti dall’Amministrazione Usa. Strategia verso cui nutro un approccio favorevole.

Per quale motivo è sbagliata?

La configurazione del mondo è del tutto cambiata dalla fine della Guerra fredda. Gli Stati Uniti, con Bill Clinton e George W. Bush, hanno tentato di affermare un modello unipolare. Tentativo non riuscito, come rivela l’assoluto insuccesso del presidente democratico sul fronte mediorientale e il fallimento delle guerre in Iraq e in Afghanistan promosse dall’Amministrazione repubblicana. Capisco pertanto le ragioni che guidarono Obama nella campagna elettorale del 2008.

Non si trattò di un messaggio isolazionista?

Niente affatto. Cogliendo uno spirito molto diffuso nell’opinione pubblica nordamericana, l’ex senatore dell’Illinois propugnò un progressivo ritiro e disimpegno dai due scenari bellici entro il primo mandato. Proponendo al contempo una rinnovata governance di un pianeta divenuto multipolare. Realtà ben più complessa di quella bipolare o unipolare, tanto più in assenza di adeguati strumenti politici sovra-nazionali.

La visione di Renzi e Mogherini ricalca tale impostazione?

Penso di sì. Entrambi esprimono un orientamento aderente alle linee direttrici prospettate dal presidente Usa. Nell’intervista al Foglio la responsabile degli Esteri compie una scelta nell’unica direzione possibile. Perché in un mondo multipolare la risoluzione delle controversie non può essere di carattere bellico. Deve contemplare una diplomazia anche muscolare, che non scada mai nel conflitto armato.

La filosofia e la prassi della politica estera italiana ricordano quella di Giulio Andreotti?

La critica di andreottismo avanzata sul Corriere non è pertinente. La strategia e la visione dell’ex Presidente del Consiglio si inserivano nel quadro della Guerra fredda. Oggi gli Stati Uniti e l’Europa sono costretti a fare i conti con la realtà valutando caso per caso gli spazi e le opportunità per eventuali interventi militari. Come avvenuto in Libia, Washington preferisce ricorrere ad “azioni armate per procura” tramite paesi arabi e alleati occidentali, esercitando un forte peso nelle retrovie.

Nella crisi ucraina come avrebbero dovuto agire Europa e Stati Uniti?

Nell’attuale realtà multipolare l’Occidente non può attestarsi su una trincea di pura contrapposizione verso la Russia, che non costituisce più il perno di un mondo bipolare ma rappresenta una potenza strategica dal punto di vista militare e geopolitico.

E in Siria?

Al contrario della Libia di Gheddafi, il regime di Damasco gode dell’appoggio di Iran e Russia. Perciò ogni intervento armato nei confronti del governo di Assad è impensabile. La risoluzione della crisi deve rientrare in un orizzonte regionale. Richiede un coinvolgimento di Teheran, dove ho riscontrato un significativo cambiamento di clima su impulso del nuovo presidente. Il pragmatico tecnocrate Hassan Rohani è sempre più intenzionato a ricercare un compromesso sulla vicenda nucleare, che ha provocato con le sanzioni internazionali seri problemi all’economia.

È immaginabile un ruolo dell’Iran nella soluzione dei conflitti mediorientali?

Sì. Oltre vent’anni fa, quando ricoprivo il ruolo di capo della diplomazia italiana, tentammo di giocare questa carta ma fummo bloccati dall’opposizione del governo Usa. Oggi è una strada da intraprendere per stabilizzare l’intera area e per affrontare in maniera non isolata il conflitto arabo-israeliano. Sarebbe una grave responsabilità per l’Occidente rinunciare a una simile opportunità.

Come giudica i tagli dell’esecutivo sull’acquisto dei cacciabombardieri F-35?

Risparmiare su un efficace programma di difesa militare è un fatto inconcepibile. Soprattutto considerando che l’acquisto degli aerei venne compiuto sulla base di ragionamenti sensati. Ricordo che al tempo della prima guerra in Iraq, nella veste di ministro degli Esteri premetti sul Presidente del Consiglio Giulio Andreotti per ottenere l’adesione dell’Italia all’intervento con 10 tornado. Scelte del genere accrescono la credibilità internazionale di un paese.

Nel Partito democratico vede persistenti pulsioni anti-militariste?

È un fenomeno radicato da molto tempo, già emerso in occasione dell’intervento militare Nato per la crisi del Kosovo. Azione cui aderì con convinzione il governo guidato da Massimo D’Alema, e che provocò furibonde reazioni in larga parte del mondo progressista. Personalmente appartengo a un filone che ha sempre sostenuto la realpolitik in politica estera, contrario a mescolare ragioni etiche con valutazioni di opportunità.

Quale scenario intravede per l’Unione Europea all’indomani del voto del 25 maggio?

Sarà inevitabile, contro ogni mitologia bipolare, una grande coalizione tra popolari e socialisti con l’innesto di esponenti liberali.

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